Eugenio Da Venezia si rileva già all’inizio degli anni trenta, un grande colorista. E’ un colore, il suo, stemperato in sottili gradazioni, quasi impalpabile nella sua essenza, importato sulle intonazioni dolci del pastello, ma con alcuni scatti felici, dove riappare la lezione tipicamente veneziana della pittura di tocco.
Fu qualche giorno dopo l’inaugurazione che squillò il telefono in casa Da Venezia: “c’è il Signor Duc de Trèvise, Sauvegard de l’art francais, era un ricchissimo e coltissimo intenditore d’arte, collezionista tra i maggiori della Francia e investito anche della carica di protettore dell’arte Francese”. Al secolo Edouard Napoléon César Edmond Mortier de Trévise (1883 - 1946).
Si presentò nello studio di San felice, disse di aver molto ammirato i 3 quadri esposti da Eugenio Da Venezia alla Biennale, volle vedere tutte le cose vecchie e nuove conservate dal pittore.
Infine acquistò un paesaggio.
“Ma lei - chiese - ha mai conosciuto Monet?” In verità, Da Venezia non si ricordava di questo pittore, pur avendo certamente visto alcuni suoi quadri alla Biennale (1932). Il Duc de Trèvise era rimasto colpito in particolare da alcuni quadri di ninfee che Da Venezia aveva eseguito negli ultimi anni, ma aveva ammirato anche le figure. Fu quell’incontro l’inizio di una lunga consuetudine. Il giorno dopo, i due si rividero alla Biennale, nel padiglione Francese e fu lì che il Duc de Trèvise presentò a Da Venezia il vecchio Pierre Bonnard. Questi lo complimentò a sua volta ed in seguito, in occasione di un altro incontro, ebbe con lui una lunga conversazione.
“Lei ha - disse all’incirca Bonnard al giovane veneziano - delle grandi qualità come colorista. Ora, proprio per questo motivo deve insistere nello studio della forma. Noi che per istinto ci abbandoniamo al colore, dobbiamo essere tanto padroni della forma da poterne fare a meno in qualsiasi momento. E per distruggerla, bisogna conoscerla, la forma”.
E’ giusto oggi, a tanti anni di distanza, chiederci il perché di quella preferenza del Duc de Trèvise per Eugenio Da Venezia. In parte la spiegazione ce la dà lui stesso quando, nel cataloghino della mostra parigina, traccia un parallelo tra la pittura veneziana (da Giovanni Bellini in poi) e quella francese, trovandovi una “naturale parentela”. In effetti i giovani di Palazzo Carminati erano allora molto vicini all’impressionismo francese, basti ricordare la finezza dell’impianto disegnativo così estemporaneo e soprattutto quel colore dolce e frizzante che caratterizza le vedute veneziane di tutti loro. Da Venezia rispetto ai suoi amici possedeva invece il dono di armoniche nuances cromatiche, che piacquero al mecenate francese per una candida fragranza dell’immagine. Dobbiamo però tener presente che alla mostra di Parigi la maggioranza dei quadri erano paesaggi con molte vedute veneziane purtroppo attualmente introvabili.
La visione è sintetica, rapida ma nitida, con un colore fresco, spesso lieve. Si capisce il riferimento del Duc de Trèvise a Sisley, cui fa riscontro l’indicazione di Leonida Rèpaci, che incontrò Da Venezia proprio alla mostra parigina alla “Carmine”. Rèpaci scrisse che la pittura di Da Venezia “trova il suo posto ideale tra Sisley e De Pisis, tra Monet e Mose Levy, essendo l’impressionismo di codesti maestri il punto d’arrivo di una sensibilità moderna che ha fatto dell’interpretazione luminosa della realtà una trasfigurazione e quasi un’apoteosi di essa”. C’è una finezza discreta, un indugio nelle trasparenze e nei paesaggi di tono, assieme ad un brio tutto musicale della composizione.
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